Il sogno della materia

di Omar Calabrese

Da quando agli inizi del secolo si è fatto strada il concetto (molto ambiguo in verità) di «avanguardia», uno strano destino accompagna gli artisti contemporanei, quello della condanna all'«originalità». In altre parole: l'artista diventa per forza una specie di pubblicitario di se stesso, obbligato a sperimentare formalmente il «nuovo», anche laddove i contenuti rimangano perfettamente gli stessi di sempre. Per fortuna, la sperimentazione dell'artista spesso è «nuova» davvero, nel senso che non segue un gusto già scontato, non rievoca echi di forme lontane che abbiano solo l'apparenza dell'innovazione, ma si dà — quasi con lo spirito della scienza — a porre buone domande ai materiali dell'espressione, e a trarre da loro tutto il potenziale di forma e di contenuto che hanno da esprimere.

Questo è chiaramente il caso di Angela Biancofiore, soprattutto nelle opere più recenti e mature (Con una conseguenza finale, fra l'altro, che non mancherà di sorprendere). Negli ultimi quadri, infatti, ha cominciato ad emergere una profonda attenzione per il supporto materico dell'opera che viene esplorato in due direzioni, una immediata (e appunto quasi naturalistica) e una indiretta (e più «poetica»). I due supporti principali di Angela Biancofiore sono la carta e la tela (in alternativa a pochi altri materiali tradiziona­li). Però, tanto la carta quanto la tela sono «sfigurate», come voleva Kandinskij, perdono riconoscibilità di carta e tela in quanto tali. La carta sembra impastarsi, invecchiarsi, corrodersi, incrinarsi, diventare pesta: in una parola prende l'aspetto della vecchiezza o dell'antichità. La tela invece si sfrangia, si rattoppa, dirada la sua rete sottostante di fili: anch'essa si comporta come se riapparisse alla luce dopo millenni di silenzio, dopo un ritrovamento archeologico.

Ed ecco improvvisamente avvenire il miracolo dell'apparizione immotivata del poetico. È proprio la tecnica dell'invecchiamento e della defigurazione artificiale dei materiali che fa assumere alle opere, piccole o grandi di dimensioni che siano, il sapore del reperto antico ma intatto e del suo mistero congenito. I quadri sembrano oggetti dalla patina cronologica spessa, fatti per essere indagati e decifrati al fine di raggiungere un loro segreto di scrittura, di mito, di bellezza nascosta. È la poetica di una archeologia immaginaria, che proietta nel passato (lontano il più possibile) le proprie indicibili attualità.

La forza della sperimentazione materiale è così potente, che persino le figure tracciate sulla superficie incerta e resa grezza — le chiare, distinte, percepibilissime figure — sono trasformate e fatte coerenti con il restante ambiente archeologico delle opere. Si prendano i segni più astratti: linee vettoriali, schemi astrologici o alchemici, geometrie irregolari. Ebbene, questi in sé sarebbero segni ambivalenti, le cui matrici potremmo scoprire in un antico paganesimo irrazionale così come in una recente tradizione che va dal solito Kandinskij a Paul Klee, su su fino agli odierni Baruchello o Pericoli. Invece qui il sapore è quello di reperti sperduti nella memoria dell'umanità, quasi disegni delle caverne o tracciati rupestri. Altrove, se il materiale appare di papiro o di pergamena d'Alessandria, il disegno si fa egizio, con chiari simboli lunari e solari, che però anche potrebbero riandare al vicino Chagall. Insomma: tutto un paradigma misto di antichità antropologiche (maya, tolteche, azteche, fenicie, assire, sumere, ittite), fa capolino attraverso carte, volumi, cartapeste, tele, papiri, corde, sugheri, palinsesti. Ma è un paradigma che sa anche di Nuova Figurazione, Astrazione ed Empatia, Blaue Reiter, ovvero di quell'archeo­logia contemporanea che ormai è divenuta la nostra tradizione moderna, la «tradizione del nuovo».

 

Bookmark the permalink.

Comments are closed.