Fondazionalismo artistico

di Mario Perniola

testo di presentazione della mostra di Angela Biancofiore presso il Centro "Luigi Di Sarro", Roma, Aprile 1989.

 

 

L'opera di Angela Biancofiore può essere inserita in una linea di tendenza, tipica di alcune manifestazioni recentissime dell'arte contemporanea, la quale è alla ricerca dei fondamenti elementari dell'attività artistica.

Vorrei soffermarmi su due punti. Il primo punto è l'affinità che scorgo nell'opera di Angela Biancofiore con esperienze molto recenti dell'arte contemporanea che vanno nel senso di una rivisitazione della dimensione arcaica. Per esempio sfogliando gli ultimi nu­meri della rivista «Art Forum», in particolare il numero di gennaio 1989, sono rimasto colpito da come il discorso di Angela Biancofiore si ponga in realtà in un contesto arti­stico molto più vasto che va però in direzione opposta a quella degli ultimi anni con la transavanguardia e in generale con il citazionismo, il postmoderno. Questo è il primo punto che mi pare importante sottolineare e che ho chiamato appunto fondazionalismo. Fondazionalismo è la ricerca di qualcosa di originario che però non è fondamento (e qui vorrei mettere in evidenza l'aspetto filosofico della questione): la nozione di fondamento rimanda a una concezione di tipo universalistico, secondo la quale la filosofia occidenta­le sarebbe l'unica filosofia e il compito del filosofo consisterebbe nella ricerca del fonda­mento dell'essere.

Del termine «fondazione» l'aspetto che tengo a sottolineare è l'aspetto etno-filosofi­co. Noi ricerchiamo le fondazioni della nostra cultura, dell'etnia greca. Questo è il se­condo aspetto che mi pare interessante evidenziare: in fondo questo fenomeno che si può ritrovare in alcune recenti tendenze delle arti, corrisponde ad una profonda trasfor­mazione della cultura filosofica che è in atto, rappresenta una netta svolta nei confronti della filosofia del negativo, della filosofia della crisi, del pensiero debole e cosi via, ed è profondamente diverso dal fondamentalismo di Severino.

Mi sembra che si apra una terza strada i cui segni sono abbastanza evidenti nell'am­bito della filosofia tedesca e nel panorama francese: un'opera come l'Encyclopédie univer­selle de philosophie, a cui collaborarono diversi studiosi, va proprio nel senso di una etno‑filosofia, della ricerca di un discorso originario Che non è presentato come un discorso universale, ma è profondamente radicato nell'etnia greca e romana, nell'esperienza del­l'Occidente che «sta accanto» e non ha nessun privilegio nei confronti di altre forme di pensiero. Come diceva Heidegger possono esistere tante forme di filosofia quante forme di  linguaggio. Questa relativizzazione è orientata verso una ricerca delle linee essenziali della nostra cultura. L'opera di Angela Biancofiore è collocabile nell'ambito di una profonda trasformazione culturale in atto e di una svolta i cui primi segni si sono cominciati ad avvertire nel corso degli ultimi due o tre anni, e di giorno in giorno nuovi scritti, nuo­vi fatti, nuove iniziative confermano questa direzione.

Angela Biancofiore individua i principi primi nelle lettere dell'alfabeto, che gli anti­chi Greci chiamavano stoicheia: su questo aspetto della produzione si è giustamente sof­fermato Augusto Ponzio nel volume La scrittura degli elementi (Bari, Edizioni dal Sud, 1988), il quale ha messo in evidenza il rapporto esistente tra segni grafici e simbolismo naturale.

I segni primordiali dei quadri della Biancofiore s'iscrivono in un supporto, che si pone come più originario e fondamentale di ciò che accoglie. Non a caso perciò le sue opere più recenti sembrano proprio caratterizzate da una particolare attenzione al fondo su cui gli stoicheia si disegnano. Per restare nell'ambito della proposta ermeneutica di Ponzio, che s'ispira al pensiero platonico, è la nozione di chora ad acquistare il massimo rilievo. Dice infatti Platone nel Timeo che esiste una specie più primordiale degli ele­menti, che non può essere chiamata né terra, né fuoco, né acqua, né alcuna delle cose che nascono da queste o da cui queste nascono. Essa è alcunché di informe che tutto in sé riceve e che partecipa, in modo oscuro e difficile da comprendere, dell'intelligibile.

Chora vuol dire in greco spazio inteso come ricettacolo pieno, non come vuoto inoc­cupato, che si dice kenon, né come mero luogo, che si dice topos. Chora è la campagna, il territorio inteso anche in senso strategico, lo spazio libero che è pronto a ricevere, ad ac­cogliere ciò che sopraggiunge: per impossessarsene, per dominarlo militarmente, per far­sene padrone. Il verbo choréo vuol dire contenere, ma anche tollerare e fa riferimento al­la capacità dei recipienti, ma anche alla comprensione di un insegnamento.

Il «fondamentalismo artistico» della Biancofiore va quindi in una direzione molto differente e perfino opposta a ciò che in filosofia s'intende per arché, fondamento, Grund. Non si tratta di trovare dei principi primi, semplici ed elementari, da cui tutto de­riverebbe, ma proprio al contrario di essere introdotti ad un'esperienza difficile, contrad­dittoria, paradossale, in cui l'aspetto materno della generazione e della nutrizione è inse­parabilmente connesso con quello guerriero della appropriazione e della vittoria.

Uno degli aspetti più interessanti delle vicende artistiche degli ultimi dieci anni è il ritorno della nozione del bello: è questo un aspetto di carattere specificamente estetico sul quale conviene soffermarsi. Era da almeno centocinquant'anni che questa nozione nell'ambito dell'estetica aveva una cattiva fama: già Hegel aveva posto al centro della sua estetica non la nozione di bello, ma la nozione di arte. Questo ritorno della nozione del bello a me sembra strettamente connesso con il postmodernismo sostanzialmente. Tutta­via, quale nozione del bello tornava con gli anni Ottanta? Ritornava la concezione più lieta, quella dell'armonia, della conciliazione: è l'idea più tradizionale, di derivazione pi­tagorica, che si potesse immaginare. Non solo pitagorica, questa nozione del bello veniva interpretata in un senso puramente decorativo, era veramente il luogo in cui tutto si po­teva conciliare con tutto. Ciò si manifesta non solo in sede di critica d'arte, ma anche in sede filosofica: l'interesse nei confronti della nozione di sublime mi sembra connesso con questo ritorno della riflessione sulle categorie classiche. Che cosa, nel corso degli ultimi anni ho dovuto completamente rifiutare nel campo dell'estetica? Proprio questa nozione del bello inteso come conciliazione. Nella storia dell'Occidente c'è un'altra nozione del bello, secondo la quale esso è inteso in senso strategico, ed è considerato un'arma; que­sta nozione rimanda a una concezione non puramente «conciliata», in cui tutto si conci­lierebbe con tutto, come invece avviene nel postmoderno. Di questo secondo concetto del bello si può ricostruire la storia risalendo a Eraclito.

La ragione per cui sono rimasto particolarmente colpito dai quadri di Angela Bian­cofiore sta appunto nel fatto che in essi ho visto emergere questa idea alternativa del bel­lo, che è più sotterranea della prima, meno superficialmente presente nel significato di bellezza che immediatamente fa pensare alla pace, all'armonia, alla conciliazione. Mi sembra molto più importante e anche meno ideologica questa idea di bellezza intesa in senso strategico, ritrovabile — come ho detto — in Eraclito, ma anche nel Barocco: tutta l'opera di Gracian rimanda all'idea di bellezza come acumen, acutezza, e dunque sta in una problematica di tipo strategico.

Delle due nozioni del bello nella storia dell'Occidente, la nozione estetica concilia gli opposti nell'esperienza sensibile e la nozione strategica mantiene gli opposti come tali nell'esperienza del logos. La chora appartiene al secondo tipo di bellezza. L'opera della Biancofiore anche.

 

 

 

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